L’atlantico

Rodney Bay Marina, St Lucia, ore 01:34 am, 13 dicembre 2012, giorno di Santa Lucia, manco a farlo apposta. Abbiamo appena ormeggiato sul pontile “ricco”, accanto a un 72 piedi. Veniamo accolti magnificamente dall’ARC, non avevamo ancora finito di mettere l’ultima cima di ormeggio che ci rifilano un rum punch, un cesto pieno di frutta fresca (banane arancie papaia cocco) e un’altra bottiglia di rum. Finalmente alle 3 di notte riusciamo ad andare a letto, stanchissimi ma “ubriachi” di gioia per aver toccato terra, forse ancora troppo entusiasti ed eccitati per dormire, e la nostra mente inevitabilmente torna in mare, a ripercorre questa magnifica avventura che non può non aver cambiato la nostra vita. Sarà difficile dare delle parole a questa esperienza, e scusatemi se tralascio alcune parti “banali”, come avvistamenti vari di balene delfini grampi tartarughe marine e pesci volanti. Ma partiamo da…

Las Palmas de Gran Canaria, 27 novembre 2012, ore 10:45 am UTC. Partenza soft, ci sono “solo” 40 nodi, così decidiamo di mettere randa con 2 mani di terzaroli e trichettina, e nonostante la tela ridotta andiamo a una media di 12 nodi con punte a 17. Il tempo non è fantastico, l’oceano si presenta in tutta la sua potenza con onde alte anche 6 metri, come a dire “non provare a sfidarmi, ricordati che devi fare ancora 3000 miglia”. Intanto il cielo è coperto, con sporadici acquazzoni che ci inzuppano fin da subito le cerate e i vestiti. In breve le nostre cuccette si inzuppano come noi e l’umidità nella cabina di prua sale a 2000%, il materasso e la federa bagnati di acqua salata non si sono più asciugati per tutto il viaggio (il sale ahimè trattiene l’umidità).

Iniziamo i turni, 2 ore di guardia e 4 di riposo, giorno e notte, in coppia. Il mio compagno è Marco, il facozzero genovese (belin) compagno di nottate passate a sognare un futuro forse non troppo lontano. Per quanto riguarda la rotta decidiamo di andare a sud verso Capo Verde per un centinaio di miglia e poi, appena incontrato l’aliseo portoghese, prendere una rotta diretta verso le Antille, ovviamente verso ovest. Della rotta si occupano il capitano Michele e il vice Gianluca, esperti regatanti, mentre io e Marco abbiamo l’ingrato mestiere di prodieri, e Angelo e Francesco si occupano delle scotte in pozzetto. Le manovre da fare non sono tante, si trattano di 2800 miglia quasi sempre dritto, ogni tanto qualche strambata, e casualmente il cambio di vela di prua capita sempre di notte durante il turno di riposo dei prodieri mentre piove e ci sono onde alte 4 metri che ti prendono a schiaffi e ti investono continuamente inzuppandoti fino al midollo.
La particolarità di una regata oceanica è che già dopo un giorno resti solo in mezzo a tanta ma tanta acqua. I tuoi avversari spariscono e diventano puntini all’orizzonte o triangolini sul GPS. Regati contro fantasmi, da casa arrivano le informazioni su quante miglia sono avanti o indietro a noi, la velocità la rotta, le posizioni, ci faccamo seghe mentali finchè non ci ricordiamo che in realtà ci interessa arrivare, senza rompere niente. E posso dire che ci siamo quasi riusciti. Quasi, perchè una notte veniamo svegliati dalla notizia peggiore per un navigatore oceanico: abbiamo perso il timone.
Tranquilli vi sto scivendo dai caraibi quindi non è stato nulla di grave, ma sul momento insomma qulcosa dalle parti dell’ombelico ha iniziato a fremere. Il timone era ancora attaccato allo specchio di poppa, e dopo 2 ore di notte con le torce mare formato e onde altissime siamo riusciti a tirarlo su in barca. Via una pala, meno male che ne abbiamo altre 3. Manco un giorno per iniziare a tranquillizzarci che la notte successiva, sempre nel mio turno di riposo, si rompe un’altra pala. Azz. Via la seconda, dai che ne abbiamo ancora (solo) 2. Ovviamente eravamo gia troppo lontani per tornare indietro e troppo lontani dall’arrivo, ma a parte questa preoccupazione le restanti pale hanno fatto il loro dovere senza problemi.
Invece le altre barche hanno rotto di tutto. Qui in porto quando incontri un amico che ha fatto la traversata la prima domanda che ci si fa è: tu cosa hai rotto? Hanno rotto tangoni bomi sartie timoni drizze scotte rande, i gennaker esplodevano come palloncini a una festa di bambini, c’è chi ne ha rotti 3 in un giorno, facendo migliaia di euro di danni (uno costa circa 6000 euro).
Comunque a parte la piccola avventura con i timoni la nostra attraversata è andata avanti senza problemi, forse un pò troppo tranquilla, che il solo pensiero di una noiosa domenica di inverno a casa trascorsa davanti alla televisione ti fa aumentare leggermente il battito cardiaco.
Essere su una barca italiana con italiani ha ben ripagato le aspettative sui pasti, abbiamo mangiato divinamente, ogni volta con ricette sempre piu ricercate, ed è d’obbligo un ringraziamento ai capi chef Francesco e Marco che passavano a volte intere mattinate a organizzare il menù per il pranzo.
L’ultimo giorno è stato fantastico, si percepiva l’eccitazione per l’imminente avvistamento della terra. Le miglia stavano diminuendo e la costa sul gps si avvicinava. Erano partite le scommesse, chi avrebbe visto prima la terra, quale turno di guardia, l’ora, se prima avremmo visto Martinica o St Lucia, e la valuta di scambio era rigorosamente 5 euro (storia lunga).
Alla fine è stato Michele il primo ad avvistare St Lucia, alle 17e35, grazie all’unico tramonto bello di tutta l’attraversata (è sempre stato pieno di nuvole). Sull’orizzonte proprio accanto al sole che calava si è intravista la cima dell’isola, momento fantastico festeggiato con spumante andato a finire su tutta la barca tranne che in bocca.
Ed erano le 00 e 35 (ora locale) del 13 dicembre quando abbiamo tagliato la ARC finish line, dopo esattamente 15 giorni, 15 ore e 50 minuti in oceano.

L’attraversata è…è una sensazione strana, che ti prende appena la barca si stacca dalla banchina: si abbandona un modello di vita a cui siamo abituati, e non sappiamo esattamente come sarà quello appena avviato. Ci vuole quasi una settimana di mare aperto per ritrovare un po di calma, per scoprire un differente modo di vivere il tempo, per apprendere che “la noia è uno stato dello spirito e non una espressione deprecabile della realtà”.
All’improvviso ci si guarda indietro, verso la vista terrestre, e sembra completamente un altro pianeta, ci si chiede come si sia potuta vivere una esistenza tanto estranea al nostro più autentico modo di essere, che scopriamo giorno dopo giorno in mare. E’in quel momento quando si percepisce la linea di confine psicologica tra vita terrestre e vita marina, che ci si può considerare veramente partiti.
Le giornate si dilatano lungo le 24 ore, assumendo il ritmo frazionato dei quarti di guardia, e trascorrono nella piu grande calma, scandita da atti quotidiani di grande semplicità, come lavare i piatti o farsi una doccia, gesti ai quali a terra non attribuiamo la minima importanza, e anzi spesso ci annoiano, ma che in mare riscopriamo in tutta la loro essenzialità ai fini di una vita piena ed armonica. Si cucina, si legge, si ride, ci si aiuta in qualsiasi cosa, si gioca con i propri pensieri.
E anche la notte diventa momento attivo di vita cessando di essere solo una parentesi, un rifugio, di frenesia quotidiana.
La necessità di avere sempre qualcuno di guardia, anche solo per sorvegliare il pilota automantico, impone di scandire la vita di bordo con turni di riposo e di veglia molto precisi che non solo modificano i ritmi biologici terrestri, senza gravi danni, ma consentono di scoprire momenti dalla giornata in genere trascurati. Tutti a terra osservano i tramonti, molti di meno sono quelli che si godono un’alba senza essere incalzati da un appuntamento di lavoro che si approssima.
Infatti in navigazione una delle attività principali diventa l’osservazione. Si osserva fuori e dentro di noi, compiendo scoperte spesso entusiasmanti. Ci si occupa di se stessi e delle persone intorno, perchè paradossalmente sono proprio questi periodi quasi letargici a creare maggiori difficoltà alle persone, quando nn cè niente da fare rimaniamo soli con i nostri pensieri le nostre ansie i nostri ricordi e non tutti sono in grado di sopportare la compagnia di se stessi per periodi troppo unghi. Rimaniamo circondati da un mondo che sembra surreale ed è facile con il passare dei giorni e delle settimane farsi prendere un pò dalla malinconia e dalla nostalgia.
Ma per fortuna che ci sono loro, gli amici. Nottate in pozzetto a parlare sotto le stelle, indispensabile solidarietà nell’affrontare manovre e situazioni delicate, e la sensazione di condividere con altri un’avventura cosi intensa sono tutti elementi che creano una complicità che non si svilupperebbe mai tanto velocemente e con le stesse persone in una città o in un ufficio. In barca capita di condividere i nostri pensieri più intimi e di svelare segreti che non avremmo mai osato raccontare a nessuno. Si creano dei legami assoluti, fantastici, su cui sai che puoi sempre contare anche se dovessi essere in capo al mondo.
E poi arriva l’attimo tanto atteso. Eccola li all’orizzonte, proprio al momento del tramonto, il profilo di una montagna, e l’entusiasmo per il completamento dell’impresa, nutrito ogni volta che il contamiglia segnava 100 miglia in piu, ci pare artificiale, quasi estraneo al nostro vero sentire, perche in realtà ci accorgiamo che l’imminente sbarco romperà quell’equilibrio interno con il nostro se più profondo e di armonia con la natura che, giorno dopo giorno, ha sostituito nel nostro animo ansia, agitazione e stress di prima della partenza.

3 Risposte a “L’atlantico”

  1. Non è facile capire quello che hai provato e la distanza, ogni tipo di distanza, aumenta… ma grazie per averci fatto sognare con le tue parole!

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